mattia darò architect - rome italy |
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Estetica dirompente ed esaltazione dei controvalori sono i caratteri più forti dell’architettura anni Novanta.
La volontà di scardinare un sistema di regole prestabilito ha indiscusse connessioni con i “movimenti del Sessantotto”.
L’essere contro, la contestazione, la ribellione, sono valori che, esplosi in forma teorica nei tardi anni Sessanta, hanno avuto uno sbocco professionale più concreto negli anni Novanta.
Etica ed estetica della contestazione hanno dato vita a un ampio movimento che nelle sue molteplici forme è poi confluito in un unico grande contenitore. I concetti utopici derivati dal pensiero comunista in europa e dall’atteggiamento beat e hippie negli Stati Uniti uniti ad una propensione verso un futuro sempre più dominato dalla tecnologia, faranno sì che le nuove energie saranno concentrate nell’immaginare scenari futuri dove il modello politico di super-democrazia sembra poter vivere solo insieme all’evolversi delle ricerche tecnologiche (si cominciano a intravedere le potenzialità del computer). Se sono quindi fondamentali gli studi portati avanti dal più grande sociologo dei media, Marshall McLuhan, così come l’avanguardia musicale di John Cage e l’arte sperimentale dei Fluxus, nell’architettura determinanti sono le ricerche e le sperimentazioni del pioniere Buckminster Fuller così come del tutto innovative sono le dissacranti provocazioni del gruppo londinese Archigram. Allo stesso tempo, nasce la cultura, che più tardi Lyotard definirà il postmoderno; al suo interno avviene lo sfrangiamento di tutte le avanguardie di inizio secolo, come in un grande melting pot culturale, che raccoglie tutti i diversi stili nuovi o rivisti (dal minimalismo al romanticismo, dal virtuosismo al pop).
Dopo la nascita, gli entusiasmi, i sogni rimasti sospesi, forse ‘aleatori’, la sensazione è che la vera partita si sia cominciata a giocare dopo la prima fase di emozione delle nuove idee, quando l’eredità ludica, l’insegnamento più importante che collega i due momenti, non viene stemperata, ma al contrario ha il tempo di sedimentare e di produrre frutti più maturi sulla base di una consapevole ironia.
L’idealista, il combattente, prende coscienza nel Sessantotto; l’architetto-imprenditore trionfa negli anni Novanta.
Tra le due generazioni avviene un connubio di spirito e di intenti, che unisce l’idea alla techne, e che diventa anche una scelta politica: non sottostare ad un potere culturale locale lottando per una apertura di vedute internazionali.
La forza e la libertà di espressione dell’architettura degli anni Novanta ha dunque le sue origini nella volontà di non assoggettarsi alle regole negli anni della giovinezza, per riuscire ad arrivare ad esprimersi negli anni della maturità con ancora forte spirito creativo, ma anche con solida professionalità.
Coop Himmelblau sono tra gli eredi più significativi di questo processo, lo sistematizzano raccogliendo le spore disseminate da un intero movimento: sono il prodotto della poetica di una generazione. La loro consacrazione come protagonisti della scena architettonica avviene tramite due importantissime mostre: Deconstructivist Architecture, svoltasi al MoMA di New York nel 1988, curata da Mark Wigley, Henry Russel Hitchcock e Philip Johnson, e Radicals, a cura di Gianni Pettina, svoltasi nel 1996 all’interno della VI Biennale d’Architettura di Venezia, diretta da Hans Hollein (segue indice).
Ciò che era stato represso con il post-modern di restaurazione riemerge: di nuovo una visione della cultura ludica e decontestualizzata.
Di grande aiuto all’interno di questo meccanismo di scioglimento e liberazione è l’influsso della cultura americana, con il boom della pop-art, della quale l’architettura eredita processo conoscitivo e contenuti. Sottolineare il valore dell’oggetto del mercato, renderlo importante e legittimarlo: operazione che in Europa sembrava assolutamente impossibile, ma che con il dovuto tempo trova una sua forma di applicazione. E’ anche da qui che nasce quella che viene secondo noi giustamente definita ‘architettura dello spettacolo’.
L’assorbimento di questi nuovi valori all’interno del dibattito architettonico diventa uno dei fili conduttori della moderna poetica artistica.
In questo contesto molto significativa è la figura di Robert Venturi che incoraggia la crescita e lo sviluppo degli ‘architetti dello spettacolo’.
Il suo ruolo è importante sia in qualità di architetto che di accademico e le sue architetture, come manifesti teorici, autorizzano l’apertura verso una sensibilità nuova che vive e subisce il fascino di neon e insegne luminose. L’indagine da lui condotta a Las Vegas sull’architettura non firmata è infatti un esempio di come sia riuscito ad individuare i terreni fertili verso cui il mercato si sarebbe indirizzato.
Con l’apertura verso questa area di sperimentazione ha un forte legame anche l’interessamento dell’architettura al design: ne è un rappresentativo esempio, a cavallo degli anni Settanta, il movimento dei radicali, gruppo prevalentemente italiano, fiorentino-milanese, che ha dato vita a stupende e premonitrici architetture ideali. Il tema “dell’oggetto” non verrà mai più abbandonato, diventando il fulcro di una vera e propria strategia di comunicazione.
Negli anni Novanta gli architetti ci si avvicinano ancora di più proprio da un punto di vista pratico; a livello tecnico l’interesse si rivolge su come è fatta una sedia o una carena di una macchina, anche per assecondare le necessità dei tempi che cambiano, e di un gusto sempre più orientato verso l’effimero. Ci si trova a voler progettare oggetti piuttosto che manufatti edilizi e a dover approfondire tematiche legate al design o a prodotti industriali. E mentre paradossalmente la ricerca è ancora tutta orientata sullo studio delle potenzialità del cemento, architetti come Koolhaas, Libeskind o Eisenman collaborano per la realizzazione delle loro architetture con la famosa struttura d’ingegneria Ove Arup, che non si occupa esclusivamente di edilizia.
In qualche modo ci si allontana dal discorso urbano, e dall’attenzione alla relazione tra l’architettura e il luogo che la ospita, ma è la stessa committenza a disinteressarsi del rapporto con il topos o con il territorio.
Si rafforzano quindi i riferimenti all’arte figurativa: ad esempio in Gehry emerge con forza dirompente la capacità scultorea. In lui, come per un artista rinascimentale, il momento della creazione è fondamentale e altrettanto lo è la necessità di tradurlo immediatamente in schizzo o in modello, il risultato trasforma l’architettura in una mastodontica opera d’arte riuscendo quasi a farla brillare di luce propria.
In Coop Himmelblau si sente forte l’eredità della secessione, e guardando ancora più indietro, delle storiche tradizioni di manifatture ed arti applicate. La capacità di maestranza, la cura del dettaglio e la finitura dominano le loro architetture rendendole simili a meccanismi perfetti. Allo stesso tempo lo studio viennese si lega fin dagli inizi alle ricerche della contemporaneità. La plasticità dei loro lavori è astratta ma allo stesso tempo allude a delle figure; in tutte le opere, da quelle minori alle più importanti, il modo di operare è più vicino ai nuovi metodi degli artisti che si cimentano con le installazioni. Coop Himmelblau, in una sorta di romanticismo contemporaneo, sono certamente uno degli studi d’architettura che più ha lavorato per allargare i confini estetici, demolendo le regole classiche di ordine e reiterazione sostituendole con l’informale e l’unico. Iniziato come un’anti-scuola, oggi possiamo dire che il loro lavoro insieme a quello di tanti amici/colleghi, da Peter Cook a Arata Isozaki, da Rem Koolhaas a Peter Eisenman, da James Wines a Frank Gehry stesso, è paradossalmente diventato il riferimento di una nuova scuola estetica e di pensiero.
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